Elisa:
Pensando alla parola residenza, mi verrebbe da rispondere con le parole tempo e spazio. Un tempo e uno spazio dedicati e, se dovessi applicarlo al nostro caso, direi un tempo e uno spazio dedicati e condivisi, attraversati assieme a qualcuno.
Francesco:
Sì, in effetti la definizione di residenza è legata al concetto di tempo e spazio, come tempo-spazio di lavoro su un progetto artistico e anche come tempo-spazio contestuale, cioè lo spazio più ampio in cui risiedi, fatto dalle persone che lo abitano in maniera permanente e da quelle che lo attraversano per un momento specifico.
E’ un contesto, con delle persone. Non è una bolla isolata. O meglio, il tempo della residenza è anche una bolla, ma contestualizzata.
Elisa:
E anche pianificata. E’ un tempo-spazio non infinito e non indeterminato: richiede una pianificazione, una definizione, che concorrono a tarare il lavoro sulla base del tempo e dello spazio a disposizione. Con Permutazioni abbiamo avuto un tempo lungo un anno, composto da blocchi di residenze di una settimana e questo formato ha determinato l’esigenza di una pianificazione specifica del lavoro.
Francesco:
Potremmo dire che attraverso la residenza si mettono dei parametri al tempo del proprio lavoro, tenendo conto anche della pressione relativa al tempo effettivo che hai a disposizione in relazione all’obiettivo che ti prefiggi o che ti è richiesto.
E’ un sistema che impone un tempo limitato, un arrivare a destinazione in quel tempo specifico, durante il quale c’è la possibilità di potersi concentrare solo sul proprio lavoro.
Elisa:
Invece, rispetto allo spazio, mi chiedevo: chissà se Virgolette sarebbe stato lo stesso se avessimo fatto lo stesso tipo di residenza in un altro spazio?
Si parte dal presupposto che lo spazio in questione sia la sala, lo studio, che ha una serie di caratteristiche imprescindibili per lavorare. Ogni spazio ha poi delle caratteristiche specifiche e peculiari che inevitabilmente vanno ad influenzare il lavoro, e nello specifico così è stato per Virgolette. Chissà se ci fossimo spostati in più luoghi durante questo anno, che forma avrebbe adesso il lavoro.
Francesco:
Vero, anche lo spazio esterno, il contesto, ha un’influenza sul lavoro, forse indiretta o meno consapevole.
Elisa:
A questo collego anche un pensiero sulla mobilità. Lavorare in residenza spesso determina un tempo e uno spazio specifici al di fuori del tempo di lavoro, perché si è dislocati in un contesto diverso da quello abituale. L’esperienza diventa tanto immersiva quanto intensa, con tutte le potenziali complicazioni o criticità del caso. Permutazioni per noi ha rappresentato una condizione diversa perché si trattava di avere una residenza nella città in cui viviamo. Ed è un grande valore in quanto permette di tornare nella propria casa ogni sera.
Francesco:
Sì, è un buon equilibrio: ho la possibilità di lavorare intere giornate focalizzato sul nostro progetto, in una dimensione immersiva, e la sera torno a casa.
In più, c’è un tempo di stacco prima della successiva residenza...
Elisa:
...che è necessario per rivedere quello che hai fatto con la giusta distanza e per tararsi nuovamente per ripartire.
Francesco:
Mi viene in mente una riflessione sulla visibilità e invisibilità del nostro lavoro, che riprendo da Daniel Blanga-Gubbay. Le residenze sono contesti deputati alla parte invisibile del processo creativo. Per quanto una residenza possa essere aperta, pubblica o condivisa, come è stato per noi durante Permutazioni, non sarà così aperta quanto uno spettacolo pubblico. Un vantaggio della residenza è che esiste una sorta di visibilità diversa: non si è completamente esposti, ma nemmeno completamente isolati. C’è una permeabilità rispetto a chi entra e chi esce, ma con un controllo di questo flusso in base a quando tu ne senti il bisogno o meno.
Elisa:
E’ quell’invisibilità che permette che il prodotto o quello che si genera di visibile poi abbia forse un certo tipo di peso. (E qui cito te che citi Daniel).
Francesco:
E dall’altra parte penso a Michele Di Stefano durante la Biennale College del 2014, come un esempio fra altri, in cui lo spazio di lavoro era sempre aperto ad uno sguardo del
pubblico / visitatore.
Mi chiedo a questo punto: lavorare in solitaria è una necessità o un’abitudine? Sicuramente dipende dai processi e dalla direzione del lavoro, ma credo ci sia un potenziale nell’immaginare la possibilità di uno spazio sempre attraversato da persone.
Elisa:
Si, è bella questa opzione del lavoro invisibile nella visibilità.
Francesco:
La residenza è anche la modalità principale con la quale noi possiamo lavorare oggi.
Le attraversiamo come artisti, e come curatori attraverso il progetto Workspace Ricerca X. Mi chiedo se è un formato che continua a funzionare. Ci servirebbero delle alternative? Possiamo immaginarle?
Con Permutazioni, per esempio, si ha la possibilità di interagire con il contesto in maniera più solida e approfondita: si torna con continuità in un luogo che è familiare, limitando la frammentazione e la dislocazione, ma mantenendo il valore della combinazione immersione/distacco. Questa modalità di residenza in qualche modo più stabile è legata all’individuazione di un interlocutore che ti sostiene e supporta per un tempo consistente.
Non è precisamente un’alternativa, forse una direzione di sviluppo che alcuni contesti stanno prendendo.
Pensavo poi che è limitante identificare il nostro lavoro con la residenza. Oltre al visibile e all’invisibile, in un processo artistico, credo che ci sia un’altra parte di lavoro che è difficile da inquadrare tanto dall’esterno quanto per noi stessi. In quel tempo tra una residenza e l’altra, non solo mi distanzio dal lavoro, ma esiste un lavoro di pensiero e di discorso da portare avanti. Il mio lavoro artistico prosegue e non si esaurisce andando in scena o lavorando in residenza. Esiste un livello ancora più profondo.
Elisa:
Questo tempo ultra-invisibile apre una riflessione ampia sulla dimensione del lavoro nel campo artistico, e sul riconoscimento, anche economico del lavoro, col corpo e accanto al corpo, in residenza e fuori dalla residenza.
Francesco:
Esiste anche un lavoro di preparazione alla residenza, forse è questo quello che intendevi tu quando tu parlavi di pianificazione?
Elisa:
Rispetto alla pianificazione intendevo che è importante capire come utilizzare il momento specifico della residenza. Questo tempo ultra-invisibile ti impone di sviluppare e allenare delle competenze nella preparazione e nella gestione del tempo della residenza. Non è un allenamento per adeguarsi ad un'ottica di produttività della residenza, quanto per capire di cosa ho bisogno in base al lavoro che voglio svolgere, in base alla direzione e all’interesse che seguo. E’ qualcosa che esiste prima della residenza ma anche durante, e poi dopo.
Francesco:
Mi viene da aggiungere che se da un lato è necessario e utile pianificare, dall’altra è altrettanto importante permettersi di avere uno spazio libero da predeterminazioni (e dunque aspettative?), nel quale potersi muovere in maniera il più possibile incondizionata. Se questo accade nel corso di un processo creativo o produttivo, alcune condizioni di partenza sono evidenti e inevitabili, a partire dal nostro storico e dallo storico del processo stesso. Sulla base di questa inevitabilità di alcune condizioni, credo sia importante lasciare spazi che non prevedano ulteriori paletti o limitazioni. Questo atteggiamento o modalità di lavoro, accanto a sessioni più pianificate, permette anche di lasciar emergere direzioni o potenzialità difficilmente visibili a priori.
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