L’Islanda: lei
Tutto è bianco, i nostri passi producono un rumore sordo. Nessuno spala la neve dalle strade che conducono alle vie residenziali, tanto ne cade sempre di nuova.
Alle finestre luci e lanterne scaldano l’inverno.
In ogni casetta colorata che si incontra viene voglia di entrare e sedersi in salotto.
Nelle case c’è sempre un bel tepore.
A febbraio le ore di luce sono circa 8, non è poi così buio.
La città è tanto piccola che dopo qualche giorno la giri come un residente.
Solo il vento ti disorienta. Se non presti attenzione ti fa fare due giri su te stesso riempiendoti la faccia di neve e poi devi indovinare in quale direzione stavi procedendo.
Il vento è una presenza che ti preme addosso, ti trascina, ti combatte.
Ti stordisce di rumore e poi sparisce all’improvviso.
Il freddo lo si immagina peggiore di quello che è.
I fenomeni naturali sono come esseri viventi che ti fanno percepire costantemente la loro presenza.
Il tempo cambia continuamente, velocemente, mentre cammini può arrivare una tempesta di neve senza preavviso o cominciare a piovere acqua ghiacciata in minuscole palline che ti battono dritte sulle guance con un po’ di cattiveria gratuita.
Le nuvole sono veloci, gli uccelli conoscono altri versi che non hai mai ascoltato.
Quando si calma il vento provi gratitudine.
L’acqua del rubinetto è calda e sa di zolfo, la senti viscida sulle mani.
L’aria sa di pulito.
Il cibo è un po’ pesante, caro, non degno di nota.
La birra è un bene di lusso.
Ciononostante abbiamo trascorso quasi ogni sera nei locali di Reykjavik, la cui proposta per la vita notturna è inaspettatamente ricca e frizzantina.
I nostri posti preferiti sono stati il Lemmy per l’arcade di Pac-Man, il Loundromat Café per l’atmosfera accogliente, e il Bakabaka per i croissant pieni di burro e cannella.
Non abbiamo avuto tempo per grandi escursioni, ma la sera ci rilassavamo nelle piscine di acqua termale. Il corpo immerso nell’acqua bollente, la testa al freddo dell’aria islandese, ci restavamo anche ore, finché non ci girava un po’ la testa.
Qualcuno di noi ha visto la Sky Lagoon e ne è tornato entusiasta, qualcun altro ha visto i geyser e le cascate Gullfoss e ne è tornato meravigliato.
E l’aurora boreale? Le abbiamo dato la caccia, ma lei ha fatto una breve capatina da dietro le nuvole, e ci ha chiesto di tornare per vederla meglio.
Zerogrammi: noi
Noi, divisi in due appartamenti e poi spesso tutti insieme.
Vestirsi a strati e poi goffi raggiungere l’autobus per raggiungere il social center o l’hangar per svestirsi e portare i nostri gesti a un gruppo di 10 danzatori dall’Islanda e dalla Repubblica Ceca del progetto Be part of, nuovi interpreti passeggeri di Elegìa, che ha già cambiato veste molte volte, è già stato in residenza su un’altra isola, la Sardegna, per diventare un film.
Questa volta diventa un progetto collettivo, una comunità di rifugiati e richiedenti asilo prende parte di Elegìa delle cose perdute e mai titolo fu più calzante, e allora lo spettacolo diventa un organismo di 60 persone di cui 45 non professioniste, e ogni volta il carico emotivo ci segue sul bus del ritorno, resta con noi mentre ceniamo, e il giorno dopo siamo di nuovo lì a vivere una delle residenze più interessanti tra quelle vissute finora.
Passate queste tre settimane, siamo tornati ognuno nelle proprie case, abbiamo tolto diversi strati di vestiti, ma qualcosa di indelebile ci è rimasto addosso.
Cosa hai perso in Islanda o cosa invece hai trovato?
Chiara: The wind!
Amina: Ho trovato delle bufere di neve bellissime. Ho ritrovato il vento come piace a me. Ho trovato molta bellezza. Ho trovato un sentimento di childhood che forse a tratti devo dire che avevo perso. In Islanda ho trovato anche...tanta curiosità.
Riccardo: Freddo. Tanto tanto freddo.
Damien: Ho perso l’abitudine di vedere il sole e la luminosità. E poi credo di aver perso anche alcune ore di sogno. Ho trovato gente bellissima, non soltanto islandese ma dal mondo. E poi ho trovato una connessione molto bella tra di noi.
Gabriel: La cosa che ho trovato è la voglia di usare la danza come strumento. Posso continuare a farlo perché ora ho le batterie piene per un po’. A volte in teatro mi sembra di farlo solo per voyeurismo, nel buio, senza stabilire una relazione di mutuo scambio. In teatro sono solo le persone che guardano me, io non vedo niente, invece in questa occasione qua è stato molto figo perché le persone le guardavi in faccia e loro erano così contente di prendere parte di questo progetto. Sento che, emotivamente, hanno dato molto di più di quanto credo di essere stato in grado di dare.
La cosa che ho perso sono 7 lezioni del corso di falegnameria.
Sonia: Ho perso la convinzione che i luoghi freddi non fanno per me.
Ho trovato cose e persone da osservare a lungo.
Valentina: In Islanda ho finalmente trovato l'inverno, quello con la I maiuscola: la neve sotto le scarpe che scricchiola, il vento freddo e le ore di buio e l'aurora boreale.
Ho trovato che servirebbe una parola più efficace per dire "grazie" perché a volte dentro un grazie c'è molto di più e la parola non basta; servirebbe una parola che fotografa come si sente il tuo cuore in quel momento.
In Islanda non ho perso nulla, al contrario. Ancora sogno i volti, la natura, le danze, i sorrisi, gli occhi e gli abbracci.
Alessio: In islanda ho trovato la resistenza, il senso di comunità e l’interesse pacato verso le realtà altrui. Ho poi lasciato lì germogli, la facilità dell’immergersi nell’acqua calda e un pacco de soldi.
ph. Sonia De Marzo
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